Per un fallo alla pallacorda

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Quella sera di fine maggio 1606, il 28 per la precisione, Michelangelo giunse al campo Marzio per riunirsi con i soliti compagni di sventura e bevute. I programmi erano quelli abitudinari: una bevuta o anche più di una in giro per le taverne di Roma, una scappata furtiva in qualche bordello del centro e una partita alla pallacorda in Campo Marzio.
Quel giorno Michelangelo non aveva pranzato né tanto meno cenato se si esclude qualche tozzo di pane mangiato di corsa allo studio mentre lavorava, ma in compenso aveva bevuto molto vino.
Stava camminando a passo svelto seguito da Cornacchia, il fedele cane barbone nero che da anni si portava dietro suo malgrado nelle sue scorribande in giro per l’Italia. Il lungo tabarro nero svolazzava all’indietro a causa del leggero vento e della sua andatura sostenuta. Quel passo svelto era figlio di tanti anni vissuti sempre in bilico sul limite che molte volte nonostante la sua ancora giovane vita lo aveva costretto a rocambolesche fughe, come quella dell’anno precedente a Genova al riparo dei Doria poiché aveva ferito gravemente il notaio Mariano Pasqualone per una lite scoppiata per Lena, la sua amante dell’epoca. Indossava anche un lungo cappellaccio a punta sempre nero che in parte gli copriva il viso. Un baffo vagamente alla sparviero e un pizzo folto gli conferivano un’espressione cupa e oscura, data anche dal suo sguardo torvo e sempre in guardia. Gli occhi traslucidi a causa del vino e sempre all’erta scrutavano tutto e tutti.
Giunse ad un incrocio tra lo stretto vicolo che stava percorrendo e una strada più larga quasi nei pressi di Campo Marzio che erano le otto passate. Il sole era già tramontato e l’oscurità iniziava ad avere la meglio sulla luce.
“Michele!” esclamò d’un tratto una voce alla sua destra.
Michelangelo trasalì e la sua mano destra andò di scatto allo  spadino che portava legato sotto il tabarro  alla cintola in corrispondenza della gamba sinistra.
“Chi siete?” urlò sputacchiando e brandendo l’arma. Cornacchia iniziò ad abbaiare.
“Michele, calmo, sono io!” disse la voce in tono più amichevole emergendo dall’ombra.
“Onorio!” rispose abbozzando un sorriso e rimettendo nel fodero lo spadino.
“Ancora un metro e mi tagliavi la gola come ad una scrofa! Vieni, fatti abbracciare.”.
“Onorio ti avevo avvisato, con me niente scherzi.”.
Onorio Longhi era uno pochi e più stretti amici di Michelangelo. Architetto, discendeva da una famiglia di architetti da diverse generazioni. Si dilettava prevalentemente a scrivere versi più che a disegnare progetti e conduceva uno stile di vita sregolato. Aveva una personalità molto eccentrica e per questo era in sintonia con Michelangelo.
I due ripresero a camminare e nel volgere di pochi minuti si ritrovarono in Campo Marzio. Diversi gruppi si erano già radunati per giocare alla pallacorda e avevano iniziato le sfide.
Michelangelo e Onorio sorpassarono un gruppetto di giovani rampanti rampolli delle migliori famiglie romane. Uno di questi scontrò volontariamente la spalla di Michelangelo, il quale, da par suo e su invito dell’amico pronunciato a mezzi denti a lasciar correre, fece finta di nulla.
“Oh Merisi” urlò la voce alle sue spalle. “Neppure vi voltate? Che uomo siete?” disse sghignazzando il giovane.
Michelangelo si voltò alzando leggermente il cappellaccio e mostrando il viso al chiaro di luna. Il tabarro sventolava mentre Cornacchia ringhiava.
“Buono Cornacchia, è solo un topo, non ci darà nessuna noia.” disse guardando l’uomo dritto negli occhi e accarezzando il cane sul collo abbracciandolo da dietro.
“Come osate. Ritirate o ve ne pentirete.”.
“Ranuccio, non vi sono forse bastate le botte che avete preso l’ultima volta?” lo derise Caravaggio.
L’uomo era Ranuccio Tomassoni la cui famiglia che parteggiava per la fazione filo-spagnola era piuttosto influente a Roma.
“Merisi badate a come parlate o ve ne pentirete.” Ranuccio pronunciò la frase avanzando di un passo.
Cornacchia abbaiò e Michelangelo posò platealmente e facendosi vedere la mano sullo spadino in segno di sfida.
“Ranuccio non sapete spaventare neppure il mio cane!”.
“Merisi perché non lo sfidi alla pallacorda?” intervenne Gianfrancesco, fratello di Ranuccio e caporione in Campo Marzio, per stemperare la tensione. Accanto a lui c’erano anche i cognati Ignazio e Federico Giugoli che ridevano sotto il bavero della casacca che portavano chiusa fino in alto, nonostante il fine maggio.
“Io ci sto” disse l’altro Tomassoni lanciando un’occhiata al fratello.
“Anche io.” disse Michelangelo slacciandosi il tabarro sotto il collo.
“Michele non cadere nella trappola, ricorda che i duelli in strada sono vietati.” disse Petronio, un altro amico che si era aggiunto per dargli manforte.
“Merisi qui tutti sanno che Fillide non è altro che una meretrice, che voi vi ostinate penosamente a chiamare amante. Ed io e il mio gentile fratello ne siamo i fidati lenoni.” Ranuccio cercò nuovamente di stuzzicare Michelangelo. Si riferiva nello specifico a Fillide Melandroni, la bella giovane che più volte aveva posato per lui e con la quale aveva avuto qualche breve ma intensissima avventura che da tempo i due si contendevano. Fillide con gli anni finì per prostituirsi a causa della povertà e accettò la protezione di Ranuccio poiché influente e ben introdotto a Roma. Tuttavia continuò segretamente a ricordare con nostalgia le giornate passate con Michele al suo atelier.
Ranuccio e Michelangelo erano consapevoli delle reciproche antipatie; in passato si erano verificate diverse risse, liti e screzi tra i due.
In breve venne allestito il campo e sistemata la corda che lo suddivideva in due parti uguali al cui interno presero parte i partecipanti. La sfida divenne un gruppo contro gruppo e perdendo fin da subito la caratteristica di uno contro uno furono chiari a tutti gli intenti, non dichiarati ma solo allusi: una sfida sportiva che mascherava voglia di azzuffarsi selvaggiamente come animali, ancora non si sapeva chi avrebbe fatto scoccare la scintilla della rissa. Da una parte i fratelli Tomassoni con i cognati Giugoli, dall’altra Michelangelo Merisi, Onorio Longhi, Petronio Troppa e un quarto uomo rimediato all’ultimo minuto.

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 La sfida incominciò senza giudici o arbitri. Michelangelo si sistemò in prossimità della corda, idem Ranuccio. I due si scambiavano occhiate cariche di rabbia e odio reciproco.
Alla prima occasione Michelangelo ne approfittò per spingere Ranuccio il quale ruzzolò a terra. Non ebbe neppure il tempo di rialzarsi che l’artista balzò in avanti sfilando lo spadino dal fodero e lo puntò verso l’inguine del rivale esclamando:
“Un lenone dovrebbe avere gli attributi, caro Ranuccio ma voi ne siete sprovvisti!” l’intento di Michelangelo era di evirare il rivale e deriderlo pubblicamente. Nella concitazione dello scontro mosse con troppa foga il polso e schiacciò troppo a fondo, con il risultato che recise di netto l’arteria femorale. Il sangue sgorgò copiosamente e macchiò all’istante la terra.

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Ranuccio colto di sorpresa urlò di dolore perdendo quasi subito i sensi e i suoi sgherri si lanciarono nella mischia. Lo stesso fecero i compagni di Michelangelo, il quale da par suo restò stupito dell’accaduto in quanto, probabilmente, andò ben oltre le sue intenzioni iniziali. Rimase alcuni secondi ad osservare il rivale ormai quasi agonizzante e non si accorse che l’altro Tomassoni, Gianfrancesco, gli si avventò colpendolo al fianco con un pugnale. Michelangelo accusò il colpo e si accasciò. Probabilmente l’assalto gli sarebbe stato fatale se non fosse stato per i compagni che si lanciarono in sua difesa: Petronio sguainò l’arma e balzò in prima linea mentre Onorio tenne occupati il più possibile e a mani nude i cognati Giugoli, dando al quarto componente della squadra il tempo di prendere Michelangelo di peso e trascinarlo in un luogo sicuro, salvandogli di fatto la vita. L’uomo misterioso venne seguito da Cornacchia che mugolava e leccava la mano del padrone.
“Tranquillo, ce la farà.” disse l’uomo scarmigliando il pelo sulla testa all’animale.
In compenso Petronio Troppa venne raggiunto da un fendente letale al polmone destro infertogli da Gianfrancesco Tomassoni, trasformatosi in belva indomabile alla vista del fratello morente.
Ranuccio Tomassoni spirò poche ore dopo la ferita, Michelangelo riuscì a salvarsi rocambolescamente grazie alla protezione dei Colonna i quali (oltre alla guarigione) gli organizzarono la fuga da Roma. Sulla sua testa pendeva ora una condanna a pena capitale in contumacia per omicidio.
Tornare a Roma d’ora in poi sarebbe stato impossibile, neppure scontando e negoziando le sue innegabili doti artistiche o ancora con l’intercessione dei Colonna.
Per Michelangelo Merisi meglio noto come Caravaggio iniziarono gli anni più difficili, quelli delle sue errabonde peregrinazioni che lo condurranno alla precoce morte pochi anni dopo.

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